LA BATTAGLIA | Contesto storico (Da G. Brizzi, Annibale. Strategia ed immagine, Provincia di Perugia, 1984)
La prima guerra punica si concluse nel 241 a.C. con la sconfitta dei Cartaginesi alle isole Egadi. I Romani estesero il proprio dominio su tutta l’Italia peninsulare e la Sicilia con le isole circostanti. A breve seguì per Cartagine la perdita della Sardegna e della Corsica, che passarono sotto il controllo di Roma, con un ulteriore aggravio delle già onerose indennità di guerra.
Cartagine attraversò una fase di profondo travaglio economico e sociale. La sconfitta aveva messo in seria discussione il suo monopolio sui commerci marittimi. Annone e il partito oligarchico aspiravano ad un’intesa pacifica con Roma mirando ad un’espansione in Africa che non toccasse gli interessi romani. A questa fazione si contrapponeva quella dei Barca, ostile a Roma. Amilcare, padre di Annibale, preso il potere, rivolse le sue attenzioni alla Spagna. Con la conquista della penisola iberica intendeva ricostituire su basi nuove l’impero perduto. Con le ricchezze in oro e argento delle sue miniere, riteneva in cuor suo di poter ricostruire un potente esercito mercenario e intraprendere una guerra di rivincita contro Roma. Il comando delle operazioni in Spagna, dopo la sua morte, nel 237 a.C. passò al genero Asdrubale, detto Il Bello. Nel 221, morto anche Asdrubale, il comando dell’esercito passò al venticinquenne Annibale, un giovane generale adorato dai suoi uomini, cresciuto nel suolo iberico in mezzo ai suoi soldati, nel culto del padre che inculcò in lui l’odio per Roma.
Negli ultimi decenni del III secolo a.C. lo stato romano era configurato come una federazione di comunità unite alla città egemone da vincoli parentali che legavano per matrimonio membri delle rispettive aristocrazie, da trattati, da alleanze militari… Importanti figure aristocratiche dei popoli tirrenici (Latini, Etruschi e Campani) si erano stabilite a Roma e sedevano in senato. Gli alleati, sotto la guida di Roma, si erano difesi dai pericoli costituiti da tribù bellicose di diversa cultura. Insieme avevano intrapreso la conquista di vasti territori appenninici e della Valle Padana. Fin dalle sue origini quello romano era stato costruito come uno stato sovrannazionale, al contrario di Cartagine che potremmo definire una città stato. Questa caratteristica consentì a Roma di resistere a lungo allo strapotere strategico e tattico di Annibale giungendo alfine alla vittoria.
I Barca avevano esteso in breve i loro domini lungo le coste e l’entroterra fondando città, come Carthago Nova, l’attuale Cartagena. L’oligarchia cartaginese riteneva di poter lasciare libertà ai Barca di dominare la penisola iberica; l’importante era che giungessero alla madrepatria in abbondanza l’oro e l’argento dei tributi. Il senato romano seguiva con attenzione le imprese dei Barca in Spagna. Nel 226 a.C. alfine si mosse e stipulò con i Cartaginesi il trattato del fiume Ebro. Roma, che era da tempo alleata con la città di Sagunto, sulla costa centromeridionale della Spagna, riteneva che lungo questo corso d’acqua, i Cartaginesi si sarebbero impegnati a fermate le mire espansionistiche dei Barca che verso oriente minacciavano le colonie romane. Ma non fu così. Annibale, diede il via alle ostilità assediando per otto mesi e alfine distruggendo Sagunto. Il rifiuto opposto dal senato di Cartagine alla richiesta degli ambasciatori romani che pretendevano la consegna di Annibale segnò l’inizio della IIa Guerra Punica: era il 219 a.C.
L’impresa a cui si accingeva Annibale era titanica, oltre le possibilità umane: egli voleva attraversare la Spagna, la Francia, valicare le Alpi e giungere prima dell’inverno nella Pianura Padana con un esercito di proporzioni enormi: aveva con sé 50 mila fanti, 9 mila cavalieri e 37 elefanti di una specie oggi estinta che viveva nelle montagne dell’Atlante. Egli riuscì nell’impresa. Contava di combattere in Italia una guerra-lampo: con una o due vittorie sul campo pensava di rompere la coesione tra Roma e i suoi alleati e vincere la guerra. In realtà non andò così. La Seconda Guerra Punica si protrasse per ben 16 anni e dopo la grandissima vittoria di Annibale a Canne del 216 a.C. divenne una guerra di logoramento senza più scontri campali. Roma portò la guerra in Spagna e poi in Africa e alfine vinse a Zama ottenendo la resa di Cartagine.
Dal Pantheon di Cartagine il grande condottiero punico scelse il mitico Ercole, un semidio conduttore di eserciti, che partendo dalla Spagna aveva valicato la catena alpina. I suoi maestri e i suoi modelli erano quelli greci: si ispirava ad Alessandro Magno. Sapeva sfruttare la forza e insieme l’astuzia: era allo stesso tempo Diomede ed Ulisse. Utilizzò al massimo le diverse qualità e attitudini militari dei reparti del suo esercito di mercenari, così diversi per struttura fisica, lingua e cultura. Possedeva una rete di informatori molto efficiente e non disdegnava di giovarsi dell’apporto di spie locali e dei disertori dell’esercito nemico. Seppe tessere alleanze e valutare, in tempi brevissimi, a proprio vantaggio gli elementi naturali. Superate le Alpi il suo esercito era ridotto a meno della metà degli uomini che erano partiti dalla Spagna. Nel 218 a.C. vinse i Romani sui fiumi Ticino e Trebbia grazie anche all’apporto di 20 mila Celti che si schierarono al suo fianco. Dopo la battaglia sul fiume Trebbia, per il freddo intenso, perse i suoi elefanti. Solo uno forse sopravvisse: il mitico Surus.
Nella primavera del 217 a.C. superò gli Appennini e scese in Etruria. Attraversò con fatica le paludi dell’Arno, dove perse la vista all’occhio destro, e si presentò davanti ad Arezzo dove era accampato con due legioni Caio Flaminio Nepote, console romano di parte popolare. L’altro console Gneo Servilio Gemino era di stanza a Rimini con forze analoghe. Informato della posizione di Annibale, egli si mosse per dare manforte a Flaminio, come il senato aveva stabilito. Annibale scese in Valdichiana in direzione di Roma. Giunto presso Cortona lasciò che i suoi ricognitori depredassero e incendiassero i campi e le proprietà degli alleati etruschi di Roma. Flaminio non reagì cercando solo di non perdere il contatto. Annibale doveva in breve trovare un terreno adatto per un agguato per decimare le legioni di Flaminio prima che si ricongiungessero con quelle di Servilio. Il suo esercito era forte di circa 30 fanti e 10 mila cavalieri, quello di Flaminio poteva contare su circa 25 mila effettivi compresa la cavalleria, molto inferiore a quella punica. Giunto in vista del Trasimeno, lasciando Cortona sulla sinistra e la riva del lago a destra, svoltò verso oriente penetrando nella costa nordoccidentale del grande specchio lacustre da una stretta via che costeggiava il lago: qui pianificò l’agguato. Era il pomeriggio del 20 giugno del 217 a.C. Flaminio giunse in vista del lago con alcune ore di ritardo e dovette accamparsi lungo le sue rive e attendere l’alba del giorno dopo per riprendere l’inseguimento.
L’agguato di Annibale al Trasimeno. 21 giugno del 217 a.C.
(Da G. Brizzi, E. Gambini, Di nuovo sulla battaglia del Trasimeno: qualche ulteriore considerazione, in G. Brizzi, G. Poma (a cura di), «Rivista storica dell’antichità», XXXVII, 2007, Università degli Studi di Bologna – Dipartimento di Storia Antica, Bologna, Pàtron Editore, 2008, pp. 77100.
I dati emersi da recenti indagini geograficostoriche e geofisiche confermano quanto le fonti storiche principali (Polibio e Livio) e lo stesso Silio Italico riferiscono sulla posizione e l’ampiezza del Trasimeno del tempo e sul ruolo che esso ha avuto nella sconfitta dei Romani del 21 giugno del 217 a.C. Polibio e Livio descrivono uno stretto passaggio che dalla Valdichiana centrale consente di penetrare nella valle ove Annibale tese il suo agguato alle legioni romane. Oggi quel passaggio è transitabile con un po’ di difficoltà: un percorso ciclabile corre lungo la riva. A quel tempo, tenendo conto che i livelli del Trasimeno erano inferiori di circa 2 metri agli attuali, questo tracciato era certamente più sicuro. La strettoia vera e propria ha inizio circa 2 km ad est dell’attuale abitato di Borghetto. Il suo nome di tradizione è Malpasso, che compare in una carta del Trasimeno del secondo Cinquecento dell’architetto militare C. Piccolpasso. Sopra la via uno sprone roccioso si protende sul lago per almeno 200 metri. Facilmente dall’alto si può controllare l’accesso alla valle e colpire in posizione di vantaggio.
La storiografia sulla Battaglia del Trasimeno è molto vasta e articolata. Le novità emerse recentemente hanno consentito finalmente di interpretare meglio le fonti e utilizzarle a pieno compiendo un’analisi critica delle teorie precedenti. Un attento riscontro combinato tra fonti antiche, dati geofisici e geograficostorici ha permesso innanzi tutto di escludere un teatro più esteso dello scontro e di indicare il percorso seguito dalle legioni romane in quell’alba di inizio estate in cui le bassure erano coperte da una bruma lattiginosa.
Il campo di battaglia del Trasimeno comprendeva la vallata di Tuoro, ai piedi dei Monti Cortonesi, chiusa ad ovest dalla strettoia del Malpasso, a nord dal semicerchio dei colli che da Monte Gualandro raggiunge Tuoro e La Mariottella, e a sud dalla riva del lago che, rispetto ad oggi, risultava avanzata di alcune decine di metri verso valle. È stata individuata la posizione dell’accampamento di Annibale sopra lo sprone alla cui estremità sorge l’attuale abitato di Tuoro: da questo luogo leggermente rilevato e allo stesso tempo aperto, posto di fronte alla via, il generale cartaginese aveva il pieno controllo della valle e dei movimenti dei due eserciti. L’avanguardia romana, avanzando con difficoltà nella bruma mattutina, scoprì alfine l’accampamento nemico e, non avendo sentore di altri pericoli, cominciò a disporsi in ordine di combattimento. Annibale diede allora il segnale di attacco simultaneo a tutti i suoi reparti. Una buona parte delle legioni era ormai entrata nella piana e fu colta di sorpresa ancora in ordine di marcia.
La colonna romana, molto allungata, fu spezzata in due tronconi dall’azione della fanteria celtica al Malpasso che agì come un maglio scendendo a valanga, dall’alto delle rocce, sugli ignari legionari che marciavano lungo la riva del lago. Il segmento avanzato della colonna romana fu sospinto in avanti mentre i reparti montati dell’esercito di Annibale già scendevano al galoppo colpendo sul fianco sinistro i soldati romani. L’attacco fu devastante. Nella confusione totale, accecati dalla densa caligine che copriva il fondo valle, i tribuni e i centurioni non furono in grado di dare ordini: tra i reparti smembrati era impossibile ogni collegamento. La chiusura della morsa ad est fu ottenuta da Annibale facendo calare verso il lago, e poi convergere verso nordovest, i fanti leggeri e i frombolieri delle Baleari che aveva nascosti lungo il vallone del Torrente Navaccia, oltre l’accampamento di Annibale, come lascia ben intendere Polibio. Quando il barcide diede il segnale di attacco, i 6.000 legionari che componevano l’avanguardia avevano probabilmente già superato il corso del Torrente Macerone evitando così il terribile impatto con le cavallerie nemiche. Infastiditi sul fianco destro dalle fanterie leggere e dai frombolieri, giovandosi della scarsa visibilità, essi trovarono, senza quasi rendersene conto, una via di fuga verso l’alto evitando l’impatto pericolosissimo con il grosso dei fanti veterani libici e spagnoli. Giunti in luoghi elevati, diradatasi la nebbia, i 6.000 constatarono quale era stata la fine dei compagni e furono alfine catturati. Tra 8 e 10 mila Romani morirono al Trasimeno; in 10.000 rientrarono a Roma. Si trattava in gran parte dei legionari rimasti tagliati fuori dall’attacco dei Celti al Malpasso che non erano entrati nel campo di battaglia. Nello scontro che durò circa tre ore fu ucciso il console romano per mano di un cavaliere insubre. Molti legionari trovarono la morte nelle acque basse del lago.
Solo dopo la sconfitta del Trasimeno Roma si rese conto pienamente del pericolo costituito da Annibale. Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore, tenne sotto controllo l’esercito di Annibale logorandolo senza combattere in campo aperto in Italia meridionale. Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano, mutando il modo arcaico di combattere delle legioni, forte della lezione di Annibale, riuscì alfine a sconfiggerlo sul campo a Zama aprendo a Roma e al suo esercito la strada per la conquista di un impero.
Centro di Documentazione della Battaglia del Trasimeno e Annibale.